Ashanti Alston - The Anarchist Panther [IT]
Ashanti Alston si definisce una “Pantera Anarchica” (The Anarchist Panther). Fin da adolescente è entrato a far parte delle Black Panther, aiutando a fondare il capitolo di Plainfield. Ha militato nel Black Liberation Army, partecipando ad azioni importanti come la liberazione di compagni incarcerati e varie espropriazioni armate. Dal 1974 al 1985 Ashanti è stato incarcerato, è durante questo periodo che si è avvicinato alle idee anarchiche. Una volta uscito ha continuato la sua lotta per i prigionieri e per la liberazione totale.
Qui sotto potete leggere la nostra traduzione di un discorso stimolante e provocatorio tenuto da Ashanti alla conferenza Law and Disorder a Portland, nel 2010. In quella occasione Ashanti ha ripercorso alcune delle tappe principali della sua esperienza politica all’interno delle Black Panthers e del Black Liberation Army fino al lungo periodo di prigionia e dei cambiamenti incontrati all’uscita dal carcere negli anni ‘80. Dalle sue parole sembrerebbe emergere che la personale delusione per la mancanza di solidarietà verso il movimento nero rivoluzionario che percepisce nella società moderna, possa essere compensata dall’incontro con le idee anarchiche, i movimenti queer, indigeni e di liberazione animale e della terra, avvenuto per lui durante la prigionia e negli anni successivi. Attraverso queste nuove alleanze Ashanti spera di portare avanti la lotta per i prigionieri politici e di guerra, per la distruzione dell’oppressore e la creazione di nuovi mondi.
La scelta di tradurre questo discorso è dovuta all’interesse storico e politico verso un tema importante e spesso assente tra i materiali disponibili in italiano sulle le lotte di liberazione nera e l’anarchismo nero negli Stati Uniti. Consideriamo quella di Ashanti Alston una testimonianza fondamentale, al di là di alcune affermazioni e pratiche che emergono nel testo che non condividiamo del tutto.
Il testo originale in inglese è disponibile su The Anarchist Library.
Le Pantere, il Black Liberation Army e la lotta per liberare tutti i prigionieri politici e di guerra. (2010)
Voglio iniziare in un modo che mi aiuti a liberarmi delle farfalle nello stomaco e che possa anche aiutare a smuoverci. Sapete che diciamo sempre: “Power to the People” (potere al popolo). E solitamente la risposta è: “All Power to the People”. Quindi se non vi dispiace seguirmi: “Power to the People!” (risposta del pubblico) “All Power to the People!”
Poi, giusto per riportarci ancora indietro nel tempo, ci sarebbe un piccolo coro e una piccola marcia che facevamo. Per questo avrei bisogno della vostra partecipazione, se permettete. Fa più o meno così. Io dirò: “Hold Your Head Up High, Panther’s Marching By. We Don’t Take No Jive.” Quando dico: “Sound Off”, voi dite: “Free the People!” Poi a un certo punto dirò “Break it on down”. E voi direte: “Free the People, Free the People, Free the People”, e poi più forte “Free the People!” Ci siamo? “Hold Your Head Up High, Panther’s Marching By. We Don’t Take No Jive, Got a Loaded .45. Sound Off!” (pubblico) “Free the People!” “Sound off!” “Free the People!” Perfetto!
Ora immaginate, in certe città e in certi villaggi dove c’erano capitoli, c’erano truppe di Pantere che marciavano lungo le strade. E lo facevamo con questo coro. Era una performance, ma una performance davvero importante. Cercavamo di mostrare alle persone che siamo una forza disciplinata, pronta ad agire. Stavamo cercando di mostrare alle persone che c’era un nuovo ruolo per noi. Ed eravamo lì: eravamo il partito delle Pantere Nere. Non si trattava solo della .45, ma non eravamo mai senza.
Era l’organizzare, l’educare, l’essere in grado di aiutare le persone a escogitare diversi modi di resistere, che ha fatto delle Pantere Nere quello che sono diventate. Sapete, abbiamo fatto il meglio che potevamo. Io ero giovane a Plainfield, nel New Jersey, una piccola città. Ma aveva gli stessi problemi di qualsiasi altra città in cui ci fossero persone nere. Eravamo trattati male. Ci siamo fatti avanti come molti altri giovani e adolescenti nelle scuole superiori.
Dovete immaginare quello che pensavano i nostri genitori. Non mi sono presentato a loro un giorno dicendo: “Ma, Ba, sto entrando nelle Pantere Nere”. Hanno semplicemente notato che stavo girando con alcune persone diverse. E non mi sedevo più di fronte alla televisione a guardare commedie o altra roba. Mi sedevo per leggere l’autobiografia di Malcom X e Malcom X Speaks al punto che mio padre si arrabbiava con me. Perché hai la testa sempre in quel libro? E a volte diceva: “Esci dal salotto”. E io: “Va bene, andrò fuori a cercare la mia gente”.
Ma la mia mente si trovava in quello stato perché ero un prodotto degli anni ‘60. Un prodotto che per molti di noi fu magico, in tutti i sensi. E quando parlo alle persone degli anni ‘60, quello che voglio che capiate a proposito della comunità nera è che abbiamo preso vita come nessun’altra generazione aveva fatto prima dal giorno in cui siamo stati rapiti e portati qui 400 anni fa. Ci avevano fatto il lavaggio del cervello, ci avevano frustato, picchiato e negato; tutto ciò ci aveva preparato a non considerare l’eventualità che le cose potessero essere diverse da quello che il suprematismo bianco aveva stabilito per noi. Ma poi sono arrivati gli anni ‘60, e gli anni ‘60 ci dicevano: “Potete essere qualsiasi cosa”. Ma in specifico: “Nero è bello! L’Africa sono le nostre radici. E siatene fieri".
Venivamo da una generazione, e da tutte quelle generazioni che hanno accettato che i neri non sono niente. Che non si sarebbero mai organizzati, che non si sarebbero mai riuniti. Non lo farete mai. E allora, all’improvviso, c'è stato qualcosa che ci ha catturato, qualcosa nell’aria. Dicevamo “Black Power”, e questo ci stava unendo alle lotte non solo in Africa ma anche in Asia, Latinoamerica e qui negli Stati Uniti perché il movimento per i diritti civili era in crescita. Le lotte delle popolazioni native stavano emergendo, le lotte dei portoricani, le lotte dei chicanos, il movimento contro la guerra, il movimento delle donne: era nell’aria.
Quindi perché non il piccolo tredicenne, quattordicenne, quindicenne Ashanti (conosciuto come Michael all’epoca). No? Perché non prenderne parte? Come tutti gli altri volevo sapere quello che avrei potuto fare. E non credo che io fossi diverso da un qualsiasi adolescente palestinese che sta cercando la risposta a queste domande adesso, nella Palestina occupata. Vedevo il movimento dei diritti civili e lo rispettavo. Ma quando ho visto quelle Pantere, e quando il mio migliore amico Jihad le ha viste; la loro rivista aveva una particolare copertina con Huey P. Newton e Bobby Seale: berretto nero, giacca nera di pelle, camicia blu, fino agli anfibi militari e le armi - una sul fianco e una in mano - sapevamo immediatamente che volevamo conoscerle. E poi abbiamo scoperto che organizzavano corsi di sopravvivenza, e che avevano scuole per la liberazione, dove insegnavano alle persone nere come difendersi perché dicevano che era nostro diritto. Si opponevano a tutte le cose che vedevamo in televisione dove i reazionari bianchi nel sud brutalizzavano le persone nere; uccidevano la nostra gente, non solo i neri, ma anche gli attivisti bianchi che andavano laggiù per aiutare in solidarietà. Facendoli sparire. E poi magari ritrovandoli anni dopo, e sono sicuro ci siano molti altri corpi ancora là in qualche palude.
Ma sapete, nonostante ciò, c’eravamo. Vedere tutto questo non ci spaventava o scoraggiava, ci portava a reagire ancora di più. E stavamo imparando. Le Pantere di New York e Newark, posti diversi, stavano venendo a Plainfield per farci vedere cosa voleva dire essere una Pantera. E la prima cosa che speravamo di ottenere, o di vedere da vicino, erano le pistole! Ma come agli altri compagni, ci hanno spiegato che non avremmo ricevuto pistole fisiche ma libri, le prime pistole che ci sarebbero state date. E dicendo “leggiamo”, ci hanno messo in mano I dannati della terra di Frantz Fanon, le citazioni di Mao Tse-Tong, tutti avevano un Libretto Rosso, poi W.E.B. DuBois e Negroes With Guns di Robert Williams. Leggiamo! E a molti, come a me, non piaceva per niente leggere per colpa di quello che la scuola ci aveva fatto. Non mi piaceva leggere. Ma allora eravamo ispirati. C’era qualcosa di diverso in noi, e volevamo sapere. Volevo sapere tutto dell’Africa, volevo sapere tutto di DuBois, volevo sapere tutto di queste cose. Quindi sì, leggevo.
Avevamo gruppi di studio: compagni neri seduti insieme, in cerchio, che si aiutavano reciprocamente a imparare. Imparavamo come andare fuori, nelle nostre comunità, ad aiutare gli inquilini a resistere a tutto quello che subivano da parte dei proprietari. Provavamo a mostrare alle persone come reagire alla polizia razzista e assassina. Un compito difficile. E vi dico che quando uscivamo nelle nostre comunità per la prima volta, le persone non si fidavano di noi. A me, come a molti altri, ci chiamavano sottoproletari, e molti di noi lo erano. Molti avevano preso parte a piccole truffe, o eravamo in bande, ma non come quelle di adesso. Ma io sì, ero al confine tra voler essere un ladro e un rivoluzionario. E in effetti, più avanti, ho unito le due cose.
Ma le Pantere ci avevano mostrato che la rivoluzione comportava un coinvolgimento nella propria comunità e una mobilitazione della stessa. Dovevamo trasmettere la speranza che potevamo cambiare le nostre condizioni. E sapere che lo facevano insieme a tutte queste altre comunità e movimenti era importante.
Non mi piacevano i compagni bianchi. Ero un convinto nazionalista. Non volevo collaborare con loro. Sono state le Pantere che mi hanno in qualche modo aiutato ad allargare la mia prospettiva, cioè, non puoi odiare tutti perché sono bianchi. Puoi non volerci avere a che fare per quello che fanno, ma se c’è un rivoluzionario bianco che è lì per supportarti e per essere un tuo alleato, lo accogli. E sebbene con riluttanza, ho imparato a rilassarmi e ad accettare i compagni bianchi. Essere a Plainfield non aiutava perchè era un posto davvero razzista. Ma stavamo iniziando a concepire un nuovo tipo di rivoluzione, specialmente per essere un gruppo nazionalista rivoluzionario. Era una roba forte.
Poco a poco, la comunità ha iniziato ad appoggiarci. La tensione tra il nostro desiderio di rompere con quella ipnosi e quella psicosi dell’essere una vittima nella società imparando a essere individui liberi e l’iniziare a volersi bene tra di noi, era molto potente. Ma il governo - non essendo questa una società basata sull’amore, ma piuttosto una società orientata alla morte, una società che odia - non lo poteva accettare. A nessun gruppo che è stato costretto a stare nel fondo della società verrà permesso di emergere. Non ci disturberete. È quello che ci dice la storia di questo paese. È così, una guerra di 500 anni. 500 anni di continuità. Senza interruzioni. Da quando gli europei per primi arrivarono qui e fecero quello che fecero: Cristoforo Colombo e tutti loro. Abbiamo capito che è una guerra di liberazione. Proprio come DuBois o le nazioni indigene che combattono per la sovranità. Nessuna differenza con i vietnamiti che lottano per scacciare gli Stati Uniti dal loro paese. Noi diciamo: “Gli Stati Uniti fuori dai ghetti!" Che sarà anche dove loro ci hanno confinato, ma ora noi guardiamo al ghetto e pensiamo: “Ci avete relegato qui e ora è nostro. Te ne vai!” E prenderemo le istituzioni, la voce di Malcom X: prendetele! Siamo diventati rivoluzionari, ma capiamo di lottare contro un mostro che ci potrebbe uccidere in un battito di ciglia.
Huey P. Newton era già stato in prigione. Stavano cercando di incastrarlo per quel poliziotto che era stato ammazzato. Bobby Seale era accusato di omicidio con Erika Huggins, a New Haven, Connecticut. Fred Hampton era stato ucciso e anche Mark Clark, nel 1969. Capivamo, ma questo non ci fermava. Più leggevamo, più ci organizzavamo. Più leggevamo, più lottavamo. Questa è la prassi. Questo è mettere in pratica. Ci miglioriamo facendo. Non dobbiamo aspettare un'ideologia sviluppata, non dobbiamo aspettare di avere tutte le risposte. La nostra situazione era talmente dura, che non avevamo il lusso di sederci e di adottare ogni sorta di posizione ideologica fantasiosa: lo avremmo capito strada facendo. Ma abbiamo subito colpi.
Il mio primo colpo, come quello di Jihad, è stato quando un poliziotto è stato ucciso nella mia città. Quindi che hanno fatto? Hanno cercato i principali agitatori e li hanno accusati, io e Jihad; 17 anni all’ultimo anno di scuola superiore. Sapevano che non eravamo stati noi. Lo sapevano. Sapevano che Mumia non aveva ucciso lo sbirro. Lo sapevano. Non è una questione di innocente o colpevole. Sapevano quello che stavano facendo: distruggevano la possibilità che si creasse un forte movimento a Plainfield, in New Jersey. Volevano Michael e David via dalla strada. Quattordici mesi; e gli ultimi quattro c’è stato il processo. Se non fosse stato per il fatto che avevamo buoni avvocati, chissà. Non dico che saremmo stati condannati a morte o in prigione a vita. Credo che avremmo trovato un modo di evadere. Perchè anche durante i quattordici mesi avevamo una lametta, e segavamo la finestra, cercando di uscire ancora prima che il giudice ricevesse il caso. A diciassette anni! Capivamo di essere soldati in guerra! Niente se e niente ma. La giuria di bianchi ha prodotto un verdetto di innocenza. Gli avvocati avevano dimostrato che si trattava di una classica montatura. Eravamo fuori, di ritorno tra le fila. I capitoli di New York e New Jersey erano sotto attacco: l’FBI, la polizia locale, stavano perdendo uomini, il governo, i media, la polizia stavano avendo successo nell'isolarci dalle nostre comunità. Avevano successo: ci chiamavano delinquenti, assassini o terrorizzavano le persone con cui ci relazionavamo.
Andavo avanti e indietro tra i capitoli di New York e di Plainfield. Il programma della colazione gratuita ad Harlem, New York, era stato sempre molto popolare. Il programma dava da mangiare ogni giorno ai bambini di Harlem. Un giorno alcuni dei bambini si sono sentiti male. All’improvviso alcuni genitori hanno iniziato a portare via i loro bambini. Dopo qualche anno abbiamo scoperto dai documenti del COINTELPRO che la polizia aveva avvelenato la frutta. E per questo ci avevano portato via i bambini. Non importano le conseguenze perché hanno il sangue freddo. Non si lasciano rovinare le cose da nessuno. Ti uccidono, ti uccidono. Scoraggiano le persone dall’avvicinarsi a te, le dissuadono. Giusto? Ma erano bravi. Siamo stati isolati e poi un giorno con delle accuse contro di noi ci hanno portato via, e le persone non sono state abbastanza veloci nel supportarci. Pantere che erano parte del Black Liberation Army sono state rinchiuse nella Casa di Detenzione di Manhattan. Prigionieri politici. Sono stati incastrati con un’imboscata a New York e una a San Francisco. È di fatto il caso degli otto di San Francisco. E io ero lì, a 19 anni. Ero stato avvicinato da un membro del Partito delle Pantere che mi aveva chiesto se volessi diventare un membro di una cellula, il Black Liberation Army.
La mia compagna dell’epoca era incinta. E ho dovuto pensare: e ora che faccio? Voglio esserci per questo bambino. Padre. Non sapevo niente dell’essere padre a 19 anni. Ma, sapete, era l’idea. Ma allo stesso tempo volevo vincere quella rivoluzione. Quindi la mia decisione è di partecipare. Forse non ci sarò per la vittoria, che pensavamo fosse dietro l’angolo. Ma almeno il bambino nascerà in un mondo libero.
E quindi eccomi, sono tornato dalla sorella e le dico: “Sono dei vostri e anche uno dei miei compagni, che ha un anno in meno di me. Ci siamo. Stavamo aspettando. È un onore unirsi ai ranghi del Black Liberation Army". Ne sono fiero tuttora, e a dire il vero anche i miei figli, e questo mi rende felice. Ma il punto è che siamo andati a riscattare quei prigionieri politici dalla Casa di Detenzione di Manhattan.
Ne sto parlando per un motivo. Per essere libero devi essere un po’ folle. Harriet Tubman dentro e fuori quante volte? Deve essere stata un po’ matta. Nat Turner anche. In tutti questi movimenti che devono confrontarsi con la brutalità del suprematismo bianco, devi essere un po’ folle. Non potete essere liberi altrimenti, facendo le cose con cautela e in modo conveniente. Sapete, se volete essere liberi è la stessa cosa quando volete imparare qualcosa, dovete essere un po’ audaci con il materiale che raccogliete e leggete perché potrebbe cambiare la vostra vita.
Quindi eccoci lì, la Casa di Detenzione di Manhattan, erano solo edifici di cemento e acciaio. Nell’area di Manhattan c’era il palazzo federale, l’immigrazione, la polizia, tutto lì. Ma c’era anche il Black Liberation Army. Non siamo diversi dalla guerriglia vietnamita contro gli Stati Uniti. L’imperialismo americano è una tigre di carta. Abbiamo letto Frantz Fanon e imparato da Frantz Fanon che se riesci a guardare il tuo nemico negli occhi la paura se ne va. Rompete la paura e vedrete che non siete invisibili. È la nostra paura di loro che li mantiene al potere. Ci siamo. Ogni giorno c’era il processo. Potevamo portargli il cibo. Portavamo il cibo alla prigione, davamo la borsa al poliziotto, lui entrava con quella e la dava ai prigionieri. Ma poi un giorno, appoggiando la borsa sul tavolo, non abbiamo lasciato che il poliziotto la prendesse. L'abbiamo aperta e abbiamo tirato fuori le pistole. Abbiamo preso le guardie e le abbiamo chiuse nel bagno, ammanettandole al water. Perché questo è quello che fanno loro. Il loro atteggiamento, lo dico per il loro atteggiamento; per essere liberi l’atteggiamento è importante. Dovete credermi. Non potete avere paura di queste persone.
Quindi eccoli lì, noi eravamo già al secondo piano, nella sala delle visite: un solido muro di acciaio, finestre e telefoni. Niente contatto. Avevamo la borsa con noi e abbiamo tirato fuori una torcia all’acetilene e io ho iniziato a tagliare. Non dovevo essere io a tagliare, doveva essere qualcun’altro che era un professionista ma che non era arrivato in tempo. Qualcuno doveva farlo. Era stato un corso accelerato, ho fatto il meglio che potevo. Io tagliavo e i prigionieri dall'altra parte si occupavano delle guardie. I visitatori erano persone regolari, mi guardavano ma era New York, non ero nessuno per loro, e ho continuato a tagliare. Se fossi stato un esperto avrei zip zip zip tiro via e tutti fuori. E sono sicuro che anche gli altri prigionieri sarebbero scappati. Ma ci ho messo molto tempo, al punto che a pochi centimetri dalla fine la tanica si è esaurita. Ed è quella la cosa che taglia il metallo quando si genera la fiamma. Allora, ho dovuto guardare i prigionieri politici, e i miei compagni, e ho dovuto prendere una decisione: dobbiamo andare! Dobbiamo andare. È stata dura per due motivi. Il primo è che non siamo riusciti a farli evadere. Il secondo è che due delle donne nella nostra cellula, avevano i loro compagni dietro alle sbarre. E le loro famiglie stavano aspettando, da qualche altra parte. E ci saremmo riuniti dopo aver fatto uscire tutti. Ma dovevamo andarcene velocemente. Mi giro verso i compagni: “Potere alle persone. Noi usciamo”. Hanno capito e ce ne siamo andati.
Sapete, la mia famiglia ci scherza ancora oggi: quando sparisco accendono il notiziario. Quella volta hanno acceso sulle notizie, e si parlava del fatto della Casa di Detenzione di Manhattan e le immagini con loro figlio. Va bene, sappiamo dov’è Michael. O sappiamo dove era. Come in altre operazioni, come le espropriazioni alle banche in New Haven, Connecticut. Non dico rapine perché eravamo rivoluzionari e non commettevamo crimini. Ma prendevamo i soldi dalle banche perché era denaro sporco di sangue. E finanziavamo la rivoluzione. Colpivamo gli spacciatori e le banche. Colpivamo le assicurazioni e le auto blindate. Eravamo in guerra! Ed è certamente quello che facevamo. Ma durante questa espropriazione a New Haven in Connecticut, c’è stata una sparatoria come nel Wild West, tre di noi sono stati catturati e io ero uno di loro. Il primo giorno in tribunale, gli abbiamo detto: non avete il diritto di processarci, siamo i soldati del Black Liberation Army. Non siamo qui per la vostra giustizia. Non chiediamo nulla. Sapevamo come stavano le cose. Era un conflitto armato. Loro avevano le pistole e noi anche. Eravamo prigionieri di guerra a quel punto. Quando ci provavano a incastrare eravamo prigionieri politici. Ma lì eravamo prigionieri di guerra. Per quel tipo di azioni ma anche per altre: molti dei prigionieri politici che Jericho rappresentava: Jamil Abdullah Al-Amin, Albert Nuh Washington, e molti altri del Black Liberation Army. E rappresentavamo compagni del Weather Underground che mettevano bombe in vari posti. Non c’erano se e ma per queste cose: eravamo in guerra. Questa è la rivoluzione: volevamo mettere quell’ impero in ginocchio, come diceva George Jackson. Senza se e senza ma. Ed eccoci qui.
Non ricevevamo molto supporto. La sinistra ci voltava le spalle. Ci chiamavano gli “infantili di sinistra”. Usavano tutte le espressioni marxiste che conoscevano. Come potete immaginare questi liberali non osavano toccarci. Ma terrorizzavano le nostre comunità che erano spaventate. E quindi solo i nazionalisti neri o i bianchi più determinati rimasero con noi. Non siamo riusciti ad uscire da quelle prigioni, ma credeteci ci abbiamo provato. Ci abbiamo provato. Sono stato condannato a 45 anni. Prima mi hanno mandato in Wisconsin. Poi, Lewisburg, in Pennsylvania. Poi a Marion in Illinois. Infine sono tornato in Connecticut. Ci spostavano così, non ci permettevano di stare nello stesso posto insieme. Ma ad un certo punto eravamo talmente tanti che avevamo i nostri collettivi: Pantere, BLA, Weather Underground, Indipendentistas di Puerto Rico: lottavamo e ci organizzavamo dall’interno. Cercando di trovare un modo per uscire. Questi erano molti degli individui rappresentati da Jericho. Dato che venivamo dai movimenti di liberazione, che combattevano la stessa guerra da 500 anni, capivamo che il sistema non era in grado di riformarsi o di compiere qualcosa di umano. La nostra libertà e la sua morte andavano insieme. Paura. Ma non ricevevamo molto supporto.
In quel momento non ricevevamo soldi, le fondazioni non ce li davano. Le persone delle comunità non sapevano nemmeno chi eravamo. Questa era la situazione. Perché? Perché il sistema era molto efficace non solo a reprimere la nostra resistenza ma anche a dare alle persone così tante distrazioni da spingerle a dimenticarsi di tutto. E molti genitori, vicini, famiglie, amici, comunità, per sopravvivenza e per non mettere in pericolo la famiglia e i figli, non ne parlavano. In altre comunità è quello che si faceva: trasmettere i racconti. Non nella nostra.
Le persone non sanno di noi oggi. Quando sono uscito di prigione, la prima volta nell’85, sono andato a New Haven, in Connecticut, e ho chiesto a uno studente delle superiori: “Che cosa sai del Partito delle Black Panther?” E mi ha chiesto: “Era un gruppo di arti marziali?” Undici anni, come era successo? Perché il sistema è stato bravo nella riconquista. Negli anni ‘60 sono stati scossi, li abbiamo scossi. Anche se solo per un minuto, è stato bello. Ma si sono ricomposti in fretta. E sanno quello che fanno. Avete visto quello che hanno fatto in Iraq? Distruggono tutto, installano l’ideologia americana, dalla prostituzione a tutta le altre stronzate di questa falsa democrazia.
Ma lo avevano già fatto nelle nostre comunità, quando hanno distrutto le Pantere e altri gruppi, hanno inondato le nostre comunità di droghe e armi. Culturalmente lo hanno fatto con la televisione e i film, i film della blacksploitation. Accendete la televisione, vedrete comici e atleti. Chi sarebbero i nostri portavoce? Integrazionisti, persone che plaudono il capitalismo nero; non si sentono più le nostre voci, non sentite Angela Davis, Huey P. Newton o Eldridge Cleaver. Sentite persone che cercano di integrarsi. Perché in questa nuova cornice neocoloniale, ci sono quelli che vogliono essere degli Zio Tom, e quindi la loro potenziale resistenza è sedata ancora prima di iniziare.
Quindi alla fine degli anni ‘80 e verso gli anni ‘90 non c’è più nulla. Niente. Ed è stato solo con l’uscita del film sulle Pantere che le persone hanno iniziato a fare domande e a capire che c’erano ancora le Pantere. Geronimo Pratt era ancora dentro. E anche altre persone del Weather Underground. E quindi le persone hanno iniziato a fare domande.
Ma poi è arrivato l’11 Settembre e siamo stati ancora dimenticati. Le persone non volevano nemmeno chiedere. Non sollevavano l’argomento, a causa dell’ultra patriottismo che era in atto. Ma i nostri combattenti, i nostri rivoluzionari, i nostri leader e pensatori erano ancora dietro le sbarre. E alcuni di loro stavano morendo. Ero entrato con loro. Eravamo tutti insieme negli anni ‘70, nello stesso posto e abbiamo fatto un patto: “Ashanti, tu prendi la condizionale”. E io: “Va bene”.
Sapete, la cosa è che io sono uscito e lavoravo per loro, per farli uscire. E anche allora si diceva: “Vi faremo uscire con ogni mezzo necessario, quello che ci vuole”. Ma fuori le cose erano cambiate. Non potevi più andare agli angoli delle strade e parlare di rivoluzione con i fratelli e le sorelle che dicevano: “Cosa posso fare?” Le persone allora dicevano: “Cosa? Sei di quel periodo? Pensavo foste tutti morti”. Era diverso e faceva male. Bisognava capire come attrarre di nuovo la loro attenzione.
E a dire il vero, non lo abbiamo ancora capito. Non ancora. Perché il potere del dollaro e il potere del capitalismo culturale americano è enorme: “Diventa ricco o muori provandoci”. E stanno pure spingendo per avere repubblicani neri. Continuano a bombardare le nostre comunità e quelle di altre persone di colore, le comunità povere e le persone in generale: mantienile conformi, in linea, così che le loro menti stiano alla larga dalla rivoluzione, dalla ribellione e dall’insurrezione. Fallo.
Ma noi abbiamo creato delle alternative. Anche quando sembrava che ci avessero in pugno, qualcosa è successo, Seattle, gli Zapatisti e tutti gli altri fatti dove persone apparentemente venute dal nulla, sono insorte. E a volte in modi davvero creativi, e diversi modi di organizzarsi. Quindi guardo queste persone e penso: “Va bene, non devo deprimermi. Lo possiamo ancora fare. Se una sola persona lotta, si può ancora fare. Se una sola persona sogna ancora, si può fare”.
Ma avevamo ancora i nostri prigionieri politici. Era difficile, quando li dovevo visitare e gli avrei voluto mentire e dire: “Credo che ci siamo”. Ma mi limitavo a dire: “So che ancora non abbiamo risultati concreti ma le persone stanno lottando” e loro dicevano: “Senti, trovate modi per coinvolgerci”. Alcuni di loro potevano accettare l’idea di morire dentro, ma a patto di sapere che fuori si continuava a lottare e che non ci si dimenticava di loro.
Sapevano che era dura, perché quello che succede nella prigione è un microcosmo di quello che succede qua fuori. È un microcosmo. E volevano che ci si ricordasse di loro. Volevano essere liberi. Gli sarebbe piaciuto essere liberi. Ma noi da fuori sapevamo, e anche loro dai tempi delle Pantere negli anni ‘60, che il potere è davvero nelle mani delle persone.
È una delle ragioni per cui sono gradualmente diventato anarchico. Perché voglio che il potere sia nelle mani delle persone e ci resti. Tutto sta nelle persone. E dico sul serio, non come quando si dice e poi c’è un piccolo gruppo che impartisce ordini. Voglio capire come mettere in atto una rivoluzione come quella Zapatista qui negli Stati Uniti, che includa tutti noi per come siamo, non che cancelli chi siamo. Ma rispettando i nostri modi di lottare. Ma ora so che per liberare i prigionieri politici, quelli dell’Earth Liberation Front, dell’Animal Liberation Front, di MOVE 9, Marilyn Buck, David Gilbert, tutte le altre Pantere e gli altri che si trovano in prigione, l’iniziativa deve venire da noi. Deve venire da noi in un modo che causi delle serie conseguenze politiche al sistema se non liberano Mumia; se non danno le cure a Seth Hayes. Dobbiamo essere quel pugno che dice: “Se non lo fate, succederanno cose”. Forse non è tanto educato. Ma è come quando Rob Los Ricos e Jeff Leurs hanno parlato - e devo dire che sono stato molto orgoglioso di voi - sottolineando quanto sia assassino il sistema.
C’è un senso di urgenza ora e non possiamo prenderlo con leggerezza. Tutte le nostre vite sono in prima linea, tutte. Le popolazioni indigene dicono: “Pensate alle prossime sette generazioni”. Dobbiamo farlo, e dobbiamo anche pensare a quelli che sono stati in prigione per gli ultimi trenta o quarant’anni. Perché se li facciamo uscire, riporteremo non solo loro ma coloro sulle cui spalle si reggono. Riporteremo nella nostra sfera i predecessori e i bambini che ancora devono nascere, consapevoli che non c’è nulla che questo sistema possa fare per noi. Niente. Non una sola cosa. A meno che non ce le facciamo da soli. Ma le facciamo solo fino a quando saremo nella posizione di farle, come dicevamo negli anni ‘60, una lama nella gola del fascismo. Non mi piace essere troppo esplicito. Ma quando provi dolore è quello che fai. Quando Kent Ford mi racconta di suo figlio, Patrice Lumumba, sento dolore per lui. Hanno preso un altro dei nostri figli. Non voglio teorizzare troppo su questo. Ma non possiamo solo avere un ruolo politico, ma quello giusto. Dobbiamo capire come riportare suo figlio a casa. Colpevole, innocente non mi importa. Se Mumia è colpevole o innocente non importa. Importa quello che facciamo.
La cosa migliore che è successa riguardo ai prigionieri politici è che gruppi che non erano soliti collaborare, magari perchè non ne vedevano motivo, hanno iniziato a lavorare insieme: i movimenti di liberazione con i movimenti di liberazione degli animali e della terra. Perché molti di noi dei movimenti di liberazione guardavamo ai gruppi animalisti nel modo in cui vengono rappresentati dai media: tutti ragazzi bianchi, con sguardi strani, che abbracciano gli alberi e tirano vernice rossa alle persone in pelliccia. E noi dicevamo: "Perché dovremmo immischiarci con questi?” Finché ti trovi in delle situazioni in cui puoi parlare. Daniel McGowan, Andy Stepanian, e le persone attorno allo SHAC. Io sono di New York. E allora ho fatto un passo indietro e ho detto: “Ah è questo quello che fate. Ora capisco”. Sono andato alle conferenze e ho visto questi documentari su quello che fanno agli animali e penso: “L’essere umano è proprio uno stronzo”. Gli stessi che hanno fatto tutto questo a noi africani. E hanno anche schiavizzato le popolazioni indigene, schiavizzate e linciate. Anche gli italiani e gli irlandesi, quasi tutti hanno avuto un assaggio di questo linciaggio, trattati male. Ma quando ti accorgi di queste cose, devi pensare come le puoi cambiare e sbarazzartene.
È che avevamo dato il meglio di noi negli anni ‘60. Alcuni erano attivi da quando avevano la vostra età. Non puoi pianificare nulla senza pensare a loro. Devono essere nella tua agenda. Sono i nostri Mandela. E l’ho detto a uno di loro un paio di mesi fa, sono “meglio di Mandela”. Sto con Winnie. Sapete in qualche modo Nelson li ha guidati verso il neoliberalismo. Vi sto cercando di dire che i nostri prigionieri politici vogliono ancora la rivoluzione. Dobbiamo riprenderceli.
Perciò qualsiasi siano le vostre cause: la terra, gli animali, dite come i compagni indigeni: “Parlo dei bipedi, le persone delle rocce, le persone con le ali”. Parlano così alcuni indigeni, lo adoro perchè è pittoresco. E in fondo siamo tutti un po’ pittoreschi ed è quando ci occidentalizziamo che diventiamo cinici, che rimuoviamo il colore dalle nostre vite. Quando iniziamo a pensare in quel modo allora possiamo decentralizzare l’essere umano, vederci come parte di un sistema vitale e cambiare le dinamiche oppressive di cui siamo parte. Guardo al panorama di New York e mi dico: “Come vorrei vedere sparire queste cose”. Industrialismo, industrializzazione guardate cosa hanno prodotto.
Poi quando i movimenti interagiscono, non solo ci si conosce per la prima volta ma possiamo condividere le nostre prospettive. E a volte, la nostra visione è arricchita dalla visione di altri, perché magari sono cose che non abbiamo considerato. Ad esempio con il movimento femminista. Come sapete gli uomini avevano guidato il movimento nero a lungo, ma che succede quando le donne dicono: “Fermatevi, basta”. Dovevamo arricchire la nostra visione perché storicamente avevamo escluso le donne. E la prima volta che ho letto la teoria queer, mi ha scioccato. È successo quando una delle mie amiche, che era queer, mi aveva fatto notare che avevo detto una stronzata sulle persone queer. Quindi mi ha dato un libro Queer Theory e poco dopo ero nella metropolitana a New York - adoro le metropolitane, faccio quasi tutte le mie letture in metro. Avevo con me il libro Queer Theory. Ero seduto ma tenevo il libro giù, cioè avevo ancora il mio comportamento machista di merda, no? Non volevo che le persone mi vedessero con un libro che dice Queer Theory, avrebbero potuto pensare che sono queer. Mentre combattevo con queste contraddizioni, ho compiuto un processo interiore. Fino ad arrivare a dirmi: “Che cazzo fai? Leggi il libro! Come leggeresti normalmente”. E mentre leggevo stavo sfidando me stesso e le mie prospettive perché la teoria queer mi stava dicendo qualcosa sull’identità, stili di vita differenti, e quello che i poteri storici hanno fatto, e quello che fa il capitalismo, molto più di semplicemente sfruttare una classe. Rovina le persone per ogni tipo di ragioni. E quindi la mia visione del mondo è cambiata. È diventata più inclusiva dei diversi modi di stare al mondo rispetto a quelli che concepivo negli anni ‘60.
E questa è sempre la sfida, quando incontri questi prigionieri politici e inizi a parlare con loro, ti aprono la mente su una realtà che probabilmente non conoscevi. E non parlo della realtà delle prigioni, di cui puoi probabilmente imparare se le visiti. Ma di quando iniziano a raccontarti le loro storie, le loro lotte, allora devi tenere conto di tutto ciò quando pensi a chi sei e a come far funzionare la rivoluzione. Quindi come dicono gli Zapatisti: “Possiamo creare un mondo dove esistono molti mondi”, ma questo inizia ora includendo i compagni che sono storicamente stati esclusi. Dalle voci delle donne ai corpi dei prigionieri e in particolare dei prigionieri politici. Capire come includerli in quello che facciamo. Proprio oggi ho scritto a Patrice Lumumba. Ieri avevo detto che l'avrei fatto, e Paulette sa che non sono bravo a scrivere lettere ai prigionieri politici. Ma ieri me la sentivo e pensavo “Dio mio potrebbe essere mio figlio". Dovevo scrivergli perchè a volte è tutto quello che ti viene chiesto. E quando si tratta solo di scrivere una lettera, o quando i prigionieri politici dicono: “Chiama questo numero, perché mi stanno trattando così, ho bisogno di un dottore”. E spesso è tutto quello che ci chiedono di fare, e dovremmo precipitarci come su un gelato. Un gelato vegano! Voglio che percepiate che sono allegro e ottimista. E mi mantengo così perché voi siete ottimisti, fate cose che mi danno motivo di andare avanti, perchè è stata dura. Ma non lascerò a questo impero il piacere di sconfiggermi.
Quindi Rob Los Ricos è fuori, Jeff Luers è fuori, Tre è fuori. Tutti loro li ho visti per la prima volta. Sapevo tutto di loro perché altri nei loro movimenti hanno iniziato a collaborare con noi. E ho pensato “Cazzo, è questo quello che sono, quello che fanno. Giusto, giusto” possiamo farlo insieme.
Possiamo trovare un modo di fare le cose insieme in un modo che rispetti chi siamo, in un modo che arricchisca le nostre prospettive, così da ottenere il mondo - o meglio i mondi, ne esistono molti - che meritiamo! Meritiamo il meglio. Lo meritiamo. Giù l’impero. E poi possiamo fare una festa in cui ci balliamo sopra. Mi capite? Possiamo farlo.
Quindi prepariamoci, in un modo in cui possiamo godere gli uni degli altri, con amore, con cura, comprensione, perché è dura. Molta sofferenza e lacrime. Ci colpiranno ma cresceremo fino al punto di poter rispondere ai loro colpi.
E l’ultima cosa, c’è un anarchico che dice: “Non è solo questione di abbattere il governo, ma soprattutto è questione di tirarsi fuori e creare il nostro proprio mondo in modo che il governo si perda nella confusione”. Perché davvero è la nostra energia, e lo diceva anche Rob, è la nostra energia che li fa andare avanti. Smettiamo di darla a loro e diamocela reciprocamente. Gli anni ‘60 ci hanno insegnato questo. Facciamolo, siamo insieme. Siamo il popolo. Potere al popolo!
“Tutto il potere al popolo!”